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Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni

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Un tempo lunghissimo che non abbiamo avuto

 

 

Nell’accostarsi ai versi del nuovo libro di Claudia Zironi, Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni, viene spontaneo attendersi un’atmosfera notturna, è legittimo prevedere sconfinamenti nel macabro, nel sepolcrale, incursioni in un mondo di incubi, in un percorso orrifico e in compagnia di un ricco sventagliamento di paure, corroborati in questo dalla immagine di copertina, fotogramma tratto dal film Poltergeist, incoraggiati anche dai testi che introducono le sezioni che scandiscono il libro, vere anticipazioni delle arie delle poesie, dove per esempio apprendiamo che – I fantasmi sono particolarmente sleali, pericolossissimi per il nostro inconscio: mostrano solo uno dei propri tanti aspetti – di solito quello fascinatorio – ci illudono della loro esistenza reale –

Accade così che fin dall’inizio assistiamo a un radicale rovesciamento della prospettiva illlusoria in cui titolo e copertina si erano largamente spesi in promesse, e scopriamo invece una subitanea luminosità dei versi: splendido sei, nella parola tua – e un dispiegamento di energia creativa che si trasmette al lettore con una specie di furia aggressiva, un impeto che non esiterei a definire amoroso, se tale parola non risultasse un limite, un rinchiudere dentro un perimetro, al contrario di quello che realmente è, un’espansione del senso, un tentativo di abbattere qualsiasi tipo di confine, di barriera:

 

non senti il profumo della carta

nuova, della musica, del vetro ?

ti scaglio contro una ribelle foglia

rossa

ti chiamo tutta la poesia del mondo. 

 

Il tema del fantasma è centrale in questo libro di versi, e si trova associato al tema della parola, al tema del tempo, dell’amore forse. Sono temi che chiunque abbia una minima dimestichezza con il pensiero filosofico non tarderà a sentire come centrali, essenziali, ad avvertire come unica certezza quali vertiginosi baratri spalanchino davanti a sé, quali domande in cerca di risposte dispieghino, mettano allineate una accanto all’altro, con la consapevolezza di un orizzonte che sempre si allontana ogni volta che un passo in avanti viene commpiuto e che non ci sarà un punto fermo, un approdo definitivo, una soluzione all’equazione. Ed è forse alla poesia demandato il compito non già di definire, quanto piuttosto di tentare, di provare a proiettare dei bagliori, dei fantasmi, delle forme che per quanto illusorie provino a dare una forma di concretezza al mistero della parola, al mistero del tempo. Niente è più illusorio del tempo e suscita un riso amaro accostare al tempo la parola reale, come se il tempo possedesse una realtà. Così è anche il mistero della parola, questa fascinazione che lancia i suoi riverberi, cosparge di mistero tutto ciò che sfiora o tocca:

 

…..risplendere di luglio

avvinghiati nella terra come forme

giovani d’argilla, riconoscersi nel vero

profondo accordo interno delle fronde,

almeno uno stormire unisono di corpi

duri e dolci, protesi al vento, almeno

una vegetale essenza, una lunga vite

di agili colline.

 

E’ in queste sequenze che il lettore ritrova un barlume di verità, una potenziale contiguità con la fascinazione che produce il verso, una specie di carezza assolutoria che avvicina, una piacevole sensazione di accoglienza, di ritrovarsi in un luogo amico. E’ un libro che mette insieme i frammenti di una esperienza di ricerca esistenziale, il tentativo di inseguire un senso, di arrivare a un approdo,  una ricerca che ha a che fare con l’amore, con l’esperienza, con tutte le domande che perennemente ci sfiorano, ci lambiscono come instancabili maree. E’ anche una disposizione a dare luce, a illuminare:   -..uguale/ a tutte le falene attratte dalla luce.- La cifra stilistica di questa ricerca in versi coincide perfettamente con la esuberante, vulcanica personalità di Claudia Zironi, con la sua suadente vitalità e il suo repentino adombrarsi, con la sua caparbietà nell’inventarsi paesaggi, nel costruire percorsi e possibilità:

di come oggi potremmo camminare

per una via di Milano senza conoscerci

 

Viene il sospetto che il fatidico approdo suggerito dai versi di Claudia sia appunto delineare un panorama di ipotesi, che una qualche parentela coi fantasmi di un progetto possono forse vantare, una mappa di evenienze, di possibili incroci, per arrivare a dire:

di esserci incontrati e subito baciati

in un chiassoso mercato rionale.

 

Anche il tema del ricordo possiede sicuramente una contiguità, una vicinanza con la realtà fantasmatica, essendo il ricordo una proiezione filmica privata, segreta, una costruzione di immagini che in qualche modo gira intorno alla realtà, vi si attorciglia senza possederla e forse in alcuni casi travisando e costruendo a nostro piacimento, fino a ottenere il giusto fantasma che ci piace ritrovare, quella personale verità che pur piegandola è la nostra verità, come quella mano piccola da bambina, e la statura di chi non vuole crescere, e il campetto sotto la vecchia casa popolare ad accogliere la palla e la sbucciatura del ginocchio, risultano così eventi che riemergono da un passato e ci chiamano col loro canto incantatorio.

Il libro racconta anche di un confronto, di un dialogo a distanza, serrato, intenso, di una presenza oltre lo schermo che tanta importanza ha rappresentato nel cammino poetico di Claudia, ed è un tu anche questa volta fantasmatico, sfuggente, doloroso e cercato, inseguito, e dunque cantato:

 

ho paura di te, di come

potresti sparire, prendermi

il cuore e mangiartelo

dirmi di essere morto,

di come ti appartengo.

 

E questo confronto certamente si colora d’amore, cresce e si dispiega illuminato dalla luce dell’amore; si ha l’impressione che il punto di partenza del libro sia appunto un dialogo a distanza, compiuto secondo le nuove modalità dell’evoluzione elettronica, e che in maniera neanche troppo sotterranea si mostri sotto forma di attrazione, di fascinazione, si conformi al modello di comunicazione vigente nell’attualità, come ci confermano appunto i seguenti versi:

 

io non so come si chiama

questo bene che ti voglio

né se ci sia un perché

al tremito della piuma

giovane, alla vertigine

del passo sulla soglia

al suono incessante

del dolore dei morti,

ma se guardo il cielo

sopra le cime, bianco

chiaro lo vedo tutto

e potente, solo amore

per abbracciarti intero

al di là dell’ostacolo

di luce e vetro, oltre

il confine della parola

 

Scrivere a proposito di un libro significa rimanere comunque aggrappati alle impressioni, alle sensazioni, cioè riportare le foto di un viaggio, quelle piccole luci che il paesaggio ha regalato in forma di riverberi, cioè significa rimanere nel campo delle ipotesi, sul terreno paludoso e sdrucciolo della soggetività. Ma c’è qualcosa comunque di solido e di concreto alla fine del viaggio, ed è il tipo di scrittura sinuoso e limpido, questa  pioggia di parole che a volte scende  in forma di scroscio, convulsa e compulsiva, a volte si fa chiara e luminosa, comunicativa e sensuale, sempre seduttiva, come un caldo abbraccio, una presenza sicura, che rispecchia fedelmente l’autrice, le sue sinuosità, la sua scoperta malizia, la sua energia che prorompe nel verso, il suo andamento attraente:

le isole risiedono nell’azzurro

di snutrono di cielo e sono

di poche parole

si dice che amino

bagnarsi nella pioggia

e farsi visitare dai gabbiani.

di solito stanno lì

dove sono sempre state

anche d’autunno.

ma dalla tua finestra talvolta

ne ho vista qualcuna volare.

 

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